1) Maurizio Crosetti. "Quando Cristiano Ronaldo comincia a mettersi il pallone sotto la gamba nel suo celebre doppiopasso, dopo neanche venti secondi, i giocatori della Roma già sembrano quei bambini che patiscono la macchina e vomitano la merenda alla prima curva. Perché il gioco di questo funambolo sposta l'equilibrio, disorienta e provoca sensazioni simili ai vuoti d'aria, qualcosa che somiglia alla vertigine e alla nausea (in senso buono s'intende: è l'effetto collaterale del suo tocco di palla). Lui è talmente gasato, ormai, da lanciarsi nel difficile o difficilissimo anche quando basterebbe passare la palla al compagno più vicino. Si capisce che vuol giocare e divertirsi come un matto. La stessa allegria di gioco che fino all'anno scorso possedeva l'altro Ronaldo, non il ciccione, Ronaldinho, il quale è una cosa grande però in questo momento pare il diminutivo del portoghese: il Ronaldo che di nome fa Cristiano, adesso, è il più bravo del mondo. O il più divertente. Nella speranza che ci sia il Milan, al prossimo giro di giostra, in semifinale contro i suoi piedi ballerini (ma è meglio non pensare alla fine che potrebbe fare la difesa dei dinosauri rossoneri), non resta che diventare tifosi globali di questo portoghese con il gel in testa, come se fossimo tutti del Manchester o, meglio, come se lui appartenesse un po' a tutti. Ma andatelo a spiegare ai poveri giallorossi in campo, pigmei al cospetto di un gigante dispettoso: Cristiano Ronaldo (si chiama così perché suo padre impazziva per Ronald Reagan, de gustibus...) ha cominciato ad attaccarsi la palla alla punta del piede al primo tocco, e non ha smesso più. Si è infilato in quasi tutte le azioni importanti dei rossi, e due - importantissime - sono state una cosa totalmente sua: il quarto e il quinto gol. Il numero sette che viene da Madeira ha dunque completato, prima, la demolizione della Roma, e poi la conseguente umiliazione. La doppietta di Ronaldo (ormai si può anche scrivere senza il nome di battesimo: non è lesa maestà nei confronti di nessuno) si è sviluppata in modi diversi. La quarta rete è arrivata al termine di un'azione classica da ala destra, con dribbling al cianuro, conclusa però da un tiro potente e millimetrico. La quinta rete, invece, è stata più comoda: al numero sette è bastato seguire l'azione, aspettando che la difesa della Roma s'imbambolasse come sempre lasciandolo solo, dalla parte opposta rispetto a quella da dove pioveva il pallone: accompagnarlo in rete è stato un giochetto da asilo d'infanzia. Di fronte a questo fenomeno, il più bravo di un gruppo di spietati, metteva malinconia osservare Francesco Totti nell'ennesima serata sbagliata della sua carriera. Ok, stavolta stava male, però mai che il numero 10 faccia non diciamo il Ronaldo, ma almeno il Totti delle sue giornate più comode. Lui è grandissimo quando tutto è facile, invece s'incarta quando la strada comincia a salire. L'assurda frase della vigilia («sento più Manchester-Roma della finale mondiale») già indicava in quale stato di confusione mentale si trovasse il capitano: la partita della Roma, e la sua personale, l'hanno confermato. In un campo di gioco ampio come l'Old Trafford, un biliardo che il Manchester non usa solo in lunghezza ma soprattutto in larghezza, Cristiano Ronaldo - altro che Totti - sembra essere doppio come il nome che porta: non una, ma due ali destre che convergono in mezzo, oppure si spostano a sinistra per disorientare chi è già sulle ginocchia. Cristiano dribbla e Ronaldo rifinisce, Cristiano passa e Ronaldo tira, Cristiano fa la finta e Ronaldo segna. Tutto sorridendo, tutto facile. L'allegria del gioco gli permette di provare cose sempre più difficili, perché ormai è tutta discesa: così Cristiano e Ronaldo, insieme, passeggiano sulle rovine della Roma".
2) Gianni Clerici. "Sessantantacinque cronisti si stipano nella rinnovata sala stampa, in cui sono passati dal 1928 infiniti campioni, interrogati da migliaia di scribi. Sul minipodio, assistito e quasi difeso da un paio di testimoni ufficiali a favore, le ginocchia disinvoltamente accavallate, Rafael Nadal attende la domande. Tardano ad arrivare, soprattutto da quella decina di giornalisti noti, gli habitué che il campione ravvisa o addirittura conosce personalmente. In questa situazione per me imbarazzante, non posso non intuire qualcosa di totalmente diverso dal Nadal che mi era familiare, sino allo scorso anno: quando vinceva cinque Montecarlo di fila e, giusto l'anno passato, seguiti da Barcellona e Roma: un'aureola di imbattibilità che pareva dovesse continuare anni e anni, relegando al secondo posto l'ex Number One mondiale, Roger Federer. Infine, mentre risponde alle solite banalità richieste da un paio di esordienti, desiderosi di esistere, mi balena d'un tratto un dubbio. Non è la star Nadal quella che ho di fronte, ma una sua controfigura. Una controfigura improvvisamente dimagrita, un giovane uomo totalmente diverso da quello che ricordavo. Era, il Nadal n. 1, un'esplosione di muscoli, ma non solo di muscoli. Irradiava sicurezza, giovinezza, arrivava a ridere, insieme ai giornalisti, del suo anglognol, il linguaggio di uno spagnolo che parla malissimo l'inglese. Anche il tono, oggi dimesso, quasi fosse una confessione, la sua, più che una comunicazione, era totalmente cambiato. Mi chiedevo se le tendiniti che appaiono ufficialmente la causa di questo suo incredibile mutamento potessero davvero creare un tale rapporto di causa effetto, e non riuscivo, con tutta la buona volontà, a immaginarlo. AI tempo stesso, mi domandavo il perché del mutamento, simile a quello di chi, come certe bellissime e prorompenti veline si spinge ad una improvvisa, non meno che nociva, dieta. Le dichiarazioni alle domande sembravano un copione redatto in diplomatichese. In Australia, prima di farsi male alle ginocchia, giocava proprio bene. A Doha sconfitto in finale da Davydenko, anche meglio. A Indian Wells, a parte una sfortunata semi contro Ljubicic, niente male. E anche a Miami, battuto da Roddick, onestamente. Per ricapitolare, negli ultimi sei mesi, non credeva di essere andato tanto male. In una parola, qui a Montecarlo, si sentiva pronto. Pronto, questa controfigura del Nadal n. 1, capace, nel 2008, di una irresistibile serie di 81 vittorie? Qualcosa che me l'aveva fatto paragonare ad Achille, un personaggio che tuttora temo non conoscesse. Non resta che augurargli di ritornare se stesso, mi dicevo, mentre a succedergli nella sala delle interviste giungeva un suo giovane collega. Quel Richard Gasquet che era stato sospeso per un incauto bacio ad una ragazza dopata e poi assolto, per evidente incapacità a discernere tra un sospiro casto ed uno avvelenato".
3) Aldo Cazzullo. "Il vento è forte, Napoli di una bellezza inquietante. Berlusconi da vicino pare finto, il trucco pesante e i capelli dal colore innaturale sono pensati per essere visti da lontano o in tv. Viene bene anche dal balcone, da qui il grido Duce-Duce. Un volantino riproduce i tre in toga tipo Plinio il Vecchio sotto il vulcano in eruzione. "Sono momenti irripetibili, personaggi che non tornano più" dice commossa una signora bionda venuta da Santa Maria Capua Vetere, e ha ragione. Dovessero perdere davvero, ci mancheranno".
4) Gian Antonio Stella. "Sarà anche vero che se «il governo ha la scarlattina, la sinistra è in coma», come irrideva ieri mattina su Il Giornale Marcello Veneziani, ma la malattia infantile che ha colpito Silvio Berlusconi è il compimento di un ciclo. Sono anni, infatti, che il Cavaliere non solo sfida l'inesorabile scorrere del tempo ma va addirittura a ritroso. Una volta, quando era giovane anche sotto il profilo anagrafico e non solo spirituale, vestiva come un funzionario dell'ufficio registro: doppiopetto, cravatta, fazzoletto dal taschino. Con gli anni s'è sciolto: maglione blu con cravatta, maglione blu scravattato, tuta blu da jogging, giubbino blu scamosciato, camicia blu con maniche arrotolate... Fino al tuffo nel giovaninismo della favolosa estate 2004 quando, per dimostrare come quel vecchio bacucco di Tony Blair avesse sì 17 anni meno di lui ma ne dimostrasse 17 di più, gli fece strada per le vie di Porto Rotondo esibendo un look da sballo: pantaloni bianchi stile «Franco-Califano-solca-Torvajanica», camicia bianca sbottonata all'ombelico da bagnino, abbronzatura camerunese e, magico tocco, una bandana da cubista con disegnini blu da far invidia a Fabrizio Corona. «Quanti anni pensa di avere?», chiese un giorno Marco Baldini allo «smemorato di Cologno» nel celeberrimo tormentone di «W radio 2». E quella canaglia di Fiorello, che vestiva i panni berlusconiani, rispose: «Io non lo so. Però mi sono guardato allo specchio. A occhio nudo, quindici anni. Sono senza rughe e non arrivo a un metro e cinquanta»".
5) Gaia Piccardi. "Noi ragazze semplici sogniamo fidanzati normali. Non c’è nulla di attraente nelle spalle da Hulk e nel vitino da vespa dei nuotatori (e il più bravo di tutti, Phelps, ha la faccia da fesso di quello a cui a scuola sparavano addosso palline di carta con la cannuccia della Bic). I calciatori se la tirano, gli schermidori hanno le gambette secche da stambecchi (un minimo di polpaccio, diamine, ci vuole), i tuffatori sono magri e piccini, i pugili mediamente grossi, i pallanotisti triangolari, gli hockeisti su prato gobbi per deformazione professionale, i tennisti asimmetrici, i ginnasti formato tascabile, gli arceri hanno la pancetta, quelli del beach volley non sono niente male però poi ti portano la sabbia in casa. I velisti stanno a Quingdao e i fuoriclasse dell’atletica sono ricchi sfondati ma non ti offrono nemmeno un caffè. I cestisti sono difficili da valutare: chi riesce a guardarli negli occhi lassù, due metri sul livello del mare? E allora i più sexy del villaggio olimpico rischiano seriamente di essere i judoka, né rachitici né imponenti, rassicuranti nella loro virile fisicità e super-affidabili se c'è da fare un trasloco. Signore bloggers, tenete d'occhio il francese Teddy Riner, nato in Guadalupa, oro annunciato nella categoria oltre 100 kg. Un Noah in vestaglia bianca e cintura nera. E poi non ditemi che non vi avevo avvertite".
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